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Ad Andria la più grande installazione di “Zapatos Rojos” del mondo

Oggi torniamo a parlare di femminicidio. Perché? Perché siamo donne prima che mamme e su questo tema abbiamo una posizione precisa: si chiama attivismo. Come vi avevamo già anticipato abbiamo partecipato attivamente al progetto di arte pubblica che l’artista messicana Elina  Chauvet (nella foto ), giunta per la prima volta al sud Italia, ha portato ad Andria.

Sabato pomeriggio in Piazza Vittorio Emanuele II abbiamo osservato assieme all’artista le 820paia di scarpe rosse che hanno marciato silenziose sotto gli occhi di più di duemila persone.  Una sorta di coro afono che regala un segno di civiltà a chi verrà dopo di noi.

Ogni scarpa rappresenta la marcia di quelle donne a cui è stata spezzata la vita: le donne che hanno subito violenza. A piccoli o grandi passi queste scarpe avrebbero voluto camminare ancora, ma ad esse sono stati negati chilometri di sogni, di speranze, di vita.

Andria è la 25ma tappa di “Zapatos Rojos”, la terza al Sud dopo Reggio Calabria e Lecce e, sottolinea Elina Chauvet, “ha portato all'installazione più grande che io abbia mai visto. Sono grata all'organizzazione e alle associazioni coinvolte perché hanno capito fino in fondo lo spirito e l'anima del progetto". Sì perché “Zapatos Rojos” è un progetto denso di storie, anche intimamente legate all'artista.  

Tutto trae origine, infatti, sia da una storia personale sia da un particolare contesto socio-culturale, che hanno segnato la sua vita. Elina Chuavet ha scelto le scarpe per costruire “Zapatos Rojos” perché proprio le scarpe sono l'oggetto che condivideva con una donna a lei vicina, vittima di violenza. E le scarpe sono anche un oggetto che tutti posseggono, e di facile reperibilità: "Chiunque ne ha un paio vecchio - dice Elina - e dunque ogni persona che lo desideri può partecipare all'installazione."

La scarpa usata ricorda una presenza in un’assenza: l’assenza di quelle donne e al tempo stesso la loro presenza. In Italia sono diventate il simbolo della lotta al femminicidio e alla violenza di genere. Le numerose imitazioni e gli usi dell'immagine della marcia di scarpe rosse per fini diversi, però, tendono a far dimenticare l'origine del progetto che rimanda alla situazione di Ciudad Juárez, città di frontiera nel nord del Messico dove, a partire dal 1993, centinaia di donne vengono rapite, stuprate e assassinate. Si uccidono le donne a Juárez perché si può fare. C’è impunità, c’è una cultura machista che non educa al rispetto della donna. Non vi è Stato e i cartelli del narcotraffico si scontrano per il controllo del mercato della droga e degli esseri umani. A Juárez, città che divora le sue figlie, è stato utilizzato per la prima volta il termine femminicidio. Ed è qui che, nel 2009, Zapatos Rojos ha preso vita, con un’installazione composta da 33 paia di scarpe.

"Nel lavoro di Elina non si è spettatori spiega Francesca Guerisoli, critica d'arte e curatrice di “Zapatos Rojos” in Italia ma parti attive nella costruzione del progetto e dunque soggetti fondamentali dell'opera stessa, la cui resa finale dipende dalla rete che ogni territorio ha costituito."

Da giornalista è stato emozionante essere ad Andria e osservare la piazza piena di scarpe rosse, scrutare gli sguardi dei passanti curiosi, rispondere alle domande dei cittadini e delle cittadine. Perché sì Zapatos Rojos è anche una chiamata rivolta a donne e uomini per manifestare la propria solidarietà verso le donne che non hanno più “voce”.

Da mamma e donna è stato un momento di riflessione. Ho involontariamente ascoltato i discorsi di alcuni 14enni, quelli che definiamo la generazione “di domani". Linguaggio scurrile, sfottò e apprezzamenti più che positivi sul fisico delle organizzatrici. Mi si è gelato il sangue... Gli “uomini di domani” non si sono minimante chiesti il perché di quelle scarpe rosse.

 L’educazione e il rispetto mettono radici nei primi anni di vita dei nostri figli. Una mamma può e deve insegnare il rispetto. Crescere un figlio maschio (ma lo stesso discorso vale anche per le femmine) è difficile ed è un impegno nei confronti della società. Non dimentichiamocelo mai. Grazie Elina, questa foto mi darà l’opportunità di spiegare a mio figlio (oggi duenne) il rispetto di genere.