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E se anche in Italia abolissimo i compiti a casa?

Quali sono i compiti necessari? Quali favoriscono realmente l’apprendimento? E’ giusto passare interi pomeriggi sui libri? Ci si lamenta della scuola ma si è incapaci di pensare un istituto diverso. E se anche in Italia abolissimo i compiti a casa? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Parodi, dirigente scolastico e autore di “Basta compiti. Non è così che si impara” (edizioni Sonda). Nel libro lei afferma che è normale assegnare i compiti a casa, ma non è sensato. Perché?

Gli insegnanti non dicono (e nemmeno scrivono) perché danno i compiti a casa, e non si attrezzano per stabilire se l’impegno sia utile, in che senso lo sia, se sia questo il solo modo o il modo migliore, il più «economico» e razionale per ottenere i risultati (quali?) attesi.

La risposta che più frequentemente ricorre, nelle rare occasioni in cui qualcuno si provi a chiedere spiegazioni in merito, è fin troppo ovvia, quasi superflua: i compiti a casa servono allo studente per imparare a memorizzare i contenuti dell'insegnamento, a riferirli nel corso dell'interrogazione e impiegarli nella prova scritta, a strutturare logicamente le informazioni, a rielaborare i dati trasmessi durante la lezione o la lettura del manuale, per imparare ad applicare le conoscenze acquisite, a dimostrarne la padronanza, insomma per apprendere, costruire, sviluppare, perfezionare il metodo di studio.

 

Ma se così fosse dovrebbero essere svolti a scuola con il vigile, solerte contributo del docente, perché proprio questo è il “compito” principale della scuola, che non può essere delegato ad altri soggetti - sarebbe come dire che per insegnare la cosa più importante non è necessaria una preparazione professionale specifica (qualunque genitore si può sostituire all’insegnante) o che per imparare la cosa più importante lo studente non ha bisogno dell’insegnante (allora superfluo, inutile).

Parliamo dell’approccio al sapere: a scuola si insegna e a casa si impara. È più utile inculcare nei piccoli il metodo o il bombardamento culturale?

E' così: a scuola si insegna e a casa si impara. Uno stupefacente paradosso. A scuola, è bene ribadirlo, non si insegna a imparare: si spiegano concetti, si descrivono fenomeni, si illustrano procedure, si narrano storie (Storia compresa), tutt'al più si formulano domande (spesso retoriche, dunque pedagogicamente illegittime, secondo Von Foster: si chiede non per sapere, ma per sapere se l'altro sa), s'inventano problemi (che nessuno si porrà mai, escogitati al solo scopo di crearne al discente), si svolgono temi (sapendo che tutto ciò che scrivi potrà essere usato contro di te), ma raramente si costruiscono o, più semplicemente, si forniscono strumenti metacognitivi. Spesso non si va oltre l’esortazione, blanda, ossessiva o terroristica: fate attenzione (ma cosa vuol dire?); procedete con metodo (quale?); concentratevi nello studio (come?). Però i docenti pretendono dai loro alunni l'impiego di un metodo di studio, ne lamentano, in sede di valutazione, l'assenza o l'inadeguatezza, stigmatizzando, nei giudizi, l'incapacità degli studenti più sprovveduti, attribuendo loro per intero la causa della mancanza. Il ragazzo non si applica, è dispersivo, non ha metodo: mai che a tali sentenze si accompagnino dichiarazioni impegnative per l'insegnante (Io che cosa ho fatto per aiutarlo a darsi un metodo?). Ed è perfettamente logico: se è a casa che si impara, svolgendo appunto i «compiti» assegnati, la responsabilità del fallimento non può che essere dello studente e della sua famiglia. La scuola non si interroga su come gli studenti imparano (interroga per sapere se hanno imparato), sulle peculiari modalità di approccio al sapere che informano l'esperienza cognitiva di ciascun individuo, non aiuta a esplorare introspettivamente le proprie originali strategie apprenditive, così da poterle impiegare consapevolmente, sviluppare e integrare.

I docenti ignorano gli «stili cognitivi» degli allievi, e si limitano a un insegnamento univoco, oltreché unilaterale; non si curano di controllare la «proprietà», la fruibilità degli interventi didattici, non è compito loro: loro insegnano, sono gli studenti che devono imparare (a imparare).

Così i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l'impegno domestico con serenità o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno e sollecitudine, e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l'intemperanza, l'ignoranza e l'insensibilità, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso incomprensibile e frustrante, è incomparabilmente più dolorosa(i compiti sono discriminanti anche perché indiscriminati).

Ancora un paradosso: gli studenti che non hanno problemi svolgono regolarmente i compiti loro assegnati, e per questo la scuola li premia; gli studenti che invece hanno problemi (personali e/o familiari), quelli che della scuola avrebbero più bisogno, non fanno i compiti, li sbagliano, li fanno male, indisponendo i docenti che per questo li biasimano e redarguiscono, infierendo con brutti voti, note e, finalmente, la bocciatura, punendo così l'indigenza, il disagio, la sofferenza, espellendo dal «sistema» proprio chi nel «sistema» potrebbe trovare l'unica opportunità di di affrancamento e promozione.

Dov’è finito il maestro “di vita”di quella che ai miei tempi si chiamava scuola elementare?

Credo sia una figura in via di estinzione, che peraltro non è mai stata molto diffusa; eppure ve ne sarebbe tanto più bisogno in un'epoca di confusione dei ruoli, di liquefazione dei profili identitari. Un docente regista, anziché primo attore dei processi di formazione; capace di allestire un ambiente di apprendimento, sereno, gioioso e funzionale alle esigenze di crescita degli studenti , e non ai bisogni di riproduzione dell'apparato; artefice di una scuola accogliente, inclusiva, nella quale bambini e ragazzi di sentano riconosciuti e valorizzati; dove sia possibile realizzare progetti, fare esperienze significative, capaci di “risonanza interiore”, perché rispondenti a bisogni, a desideri reali e condivisi. Un insegnante può essere maestro di vita (come lo è stato Mario Lodi) purché si permetta alla vita di entrare nella scuola.

Ma così non è. La scuola-istituzione vive della trasmissione culturale, dall’alto al basso: esiste una cultura codificata, posseduta che si riversa mediante procedure burocratizzate, dunque sottratte al contributo costruttivo e creativo del “discente”. Una cultura prettamente libresca, quella scolastica, indifferente ai problemi della vita, che fa di tutto perché i fatti personali, gli eventi contemporanei, gli accadimenti sociali non entrino a turbarla, così come le macchie del sole di Galileo non dovevano comparire perché avrebbero messo a soqquadro due millenni di scienza e filosofia, una teologia assoluta e infallibile. Valori e relazioni tipiche del mondo esterno alla scuola non vi devono penetrare. Lo ha spiegato molto chiaramente Giancarlo Cavinato: “Dalla relazione d'amore, al gioco, al denaro, a esempio, non devono costituire oggetti di lavoro e di scambio nella scuola, che deve costituire una "fortezza" di fronte alle aggressioni esterne. I "riti scolastici", l'organizzazione del tempo, dello spazio, la disciplina, le regole, la fiducia positiva nell'autorità, gli atteggiamenti corporei e i movimenti previsti scandiscono e accompagnano l'ingresso e la permanenza per una fase della vita di ognuno in un mondo diverso, a parte. L'attenzione deve essere deviata dai mille accidenti quotidiani, esser posta sui momenti rituali e sulle consegne."

La scuola del “leggere, scrivere e far di conto” ormai non basta più. Accanto ai “saperi tradizionali” vanno inseriti quelli “specialistici”. Cosa ne pensa?

Credo che leggere, scrivere e far di conto siano competenze essenziali, irrinunciabili, come dimostra l'alto tasso di analfabetismo funzionale o di ritorno che anche i diplomati italiani dimostrano in misura straordinaria, perciò gravissima. Finora l'innovazione ha coinciso con l'ampliamento del curricolo, secondo una logica di tipo additivo, confondendo quantità e qualità: si sono aggiunte attività/discipline a Piani dell'offerta Formativa sempre più ipertrofici (esibiti dalle scuole come vetrine da supermercato della formazione) che certificano un'identità meramente cartacea perciò fasulla – si tratta di documenti destinati a precoce “cassettizzazione”, giacché la didattica reale e tutt'altro.

Ormai da tempo si sostiene che per accrescere le facoltà mentali (di apprendimento), si debba disporre delle nozioni essenziali, bisogna cioè sapere, ma ben più rilevanti sono le modalità di trattamento e uso delle informazioni, e, più in generale, la capacità di gestire la risorsa apprendimento, di mobilitare strategicamente le abilità acquisite e di trasferirle in contesti nuovi e diversi.

Il mito della massima e definitiva competenza è ormai tramontato da tempo; il pensiero più maturo riconosce la propria “debolezza”; la tecnologia crea nuovi alfabeti che incide sul display elettronico della comunicazione planetaria; la ricerca avviene in tempo reale, in un contesto (globale) caratterizzato da rapida usura e precoce obsolescenza dell'informazione utile. Persino la flessibilità, imposta come paradigma professionale da un mercato del lavoro sempre più immateriale e fluttuante, spinge verso l'acquisizione di abilità metacognitive, quelle che consentono la più rapida riconversione delle competenze, l'adeguamento più agile dei propri repertori cognitivi e comportamentali ai mutamenti dell'ambiente.

La scuola dovrebbe darsi il compito di compiere una sintesi, di raccordare stimoli e suggestioni alle conoscenze, di insegnare a organizzare le diverse informazioni, senza limitarsi ad assistere indifferente, quando non supponente od ostile, all’emergere di nuove culture, nuove forme di comunicazione, al sommarsi di vecchi e nuovi disagi, continuando ad apparire come il terreno cintato di un universo di specialisti gelosi del loro monopolio.

“La scuola che vorrei nell'era dei nativi digitali”: cosa cambierebbe nel “sistema” se avesse la bacchetta magica?

Tra le tante ragioni che separano e oppongono la scuola alla vita (vera), una si evidenzia con spaventoso clamore: il 90% delle classi utilizza supporti quasi esclusivamente cartacei, e solo il 16% si avvale di un setting didattico innovativo; ma più del 90% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni usa quotidianamente Internet e/o il PC. La rete connette, anima e avvolge quasi tutti i giovani in età scolare, però non lambisce la scuola, sempre più fuori dal tempo (biologico e storico) e dallo spazio (fisico e virtuale). L'impiego dei mezzi informatici non è ulteriormente differibile, ma deve innestarsi su di una pedagogia profondamente diversa (invocata dagli stessi Programmi e dalle Indicazioni ministeriali) Penso a una scuola che riconosca gli studenti per quello che sono e non per quello che non sono ancora e dovranno diventare, per quello che sanno e non per quello che ancora non sanno e dovranno imparare; che li consideri nella loro interezza, diversità e complessità; che non lasci il corpo (la pancia, le emozioni) fuori dall'aula; che ne valorizzi le competenze, le capacità; che sostenga il rapporto tra pari, attraverso il mutuo insegnamento, l'autoorganizzazione, la cooperazione educativa; che utilizzi il gioco come formidabile occasione di apprendimento; che consenta di fare esperienze, di esplorare, costruire, anche con le mani e non solo con la testa. Ma per farlo non occorre una bacchetta magica: basterebbe un po' di buon senso (pedagogico).